a cura di Edoardo Fontana
Sono i Vangeli a introdurci nella storia di Salomè e la vicenda, siamo attorno all’anno 32, è all’apparenza piuttosto semplice: figlia di Erodiade, era una adolescente quando, istigata dalla madre, chiedeva la decapitazione di un giovane prigioniero del tetrarca e patrigno Erode Antipa. Probabilmente fu proprio la concisione, tutto il non detto dei testi di Marco e Matteo a circondare di fascino tetro e sinistro la sua vicenda.
L’atto di decapitare, suggerito appena o descritto con truce violenza, la testa deposta sul piatto che Salomè aveva chiesto perché probabilmente disprezzava lordarsi le mani col sangue, saranno gli elementi associati a lei, segnali per riconoscerla nelle sue figurazioni, numerosissime proprio in relazione all’importanza che il culto per Giovanni il Battista, primo martire cristiano, s’era guadagnato. Fino al momento in cui il mito salomeico trovò nuovo humus nel decadentismo letterario e artistico del secondo Ottocento. E la sua ricomparsa fu plateale: l’iconografia antica è rinnovata e superata, reinterpretata scavandone la psicologia alla luce di una nuova ammirazione che trasforma il mero medium della divinità in una eroina talvolta squallida, spesso invece affascinante e attraente seppur nella sua perturbante natura.
In pochi anni, durante la seconda metà dell’Ottocento, l’ideale femmineo si era evoluto dalla visione melanconica dei Preraffaeliti, attraverso la sublimazione della bellezza terribile cantata nei poemi di Baudelaire, in un nuovo immaginario che la incarnava ora nella femme fatale, nella Belle Dame sans Merci.
Molti scrittori scelsero così Salomè come soggetto, tra questi Stephane Mallarmé, Jules Laforgue, Joris-Karl Huysmans ed Eugénio de Castro, ma furono certamente Gustave Flaubert e Oscar Wilde gli autori dei due testi seminali nella cultura fin de siècle che riscriveranno la sua iconografia e la sua psicologia. È impossibile considerare il proliferare del-l’immagine dell’eroina negativa senza analizzare Herodias scritta nel 1877 e Salomé. Drame en un acte del 1893: perché la sua figura si nutre come poche altre di un substrato letterario inscindibile. Non è un caso che questi due testi siano stati illustrati da artisti spesso famosi quali Aubrey Beardsley e Lucien Pissarro, John Vassos, Alastair, Frantisek Kobliha e Manuel Orazi oppure più appartati ma non meno acuti come Markus Behmer, Louis Jeau, Alméry Lobel-Riche e William Walcot, per dirne, badate, solo alcuni. Molti di questi artisti sono presenti in esposizione.
Salomè descritta, nella perturbante novella di Flaubert Herodias, come veicolo del male, danza per Erode Antipa. Ed è in questa danza che la giovinetta si trasfigura. Attraverso di lei passa un’onda che la tramuta in demone inconsapevole, le movenze di una creatura elegantemente ferina, flessibile e carnale. Erode la chiama a sé, in preda a una sorta di incontenibile delirio erotico: «Viens! viens! Tu auras Capharnaiim! la plaine de Tibérias! mes citadelles! la moitié de mon royaume!». E Salomè non chiederà metà del suo regno. Perché la sua voluttà è priva di mire, agisce senza alcun desiderio: vi è una sorta di banalità del male in grado di richiamarci alla memoria o di profetizzarne uno più grande che qualche anno più tardi avrebbe portato alla fine di ogni certezza attraverso le nefandezze del nazismo.
Nei primi anni del Novecento, esaurita la vitalità, questo emblema del femminile, piano sarebbe di nuovo svanito nelle pieghe del tempo — come tutto questo universo decadente ed estetizzante — lasciando il posto a più importanti istanze. Rari e sparsi ritratti ancora le saranno dedicati dagli artisti, spesso illustrazioni di volumi, eccezionalmente opere autonome come la piccola Salomè barbara, perversa e suggestiva di Bruno Burattini che «con la movenza languida dei suoi fianchi scosta negligentemente dalla vita il precursore di un nuovo mondo».